La terapia indiretta

La terapia indiretta
A cura del Dr. Claudio Cecchi

Il trattamento indiretto di pazienti con problemi di natura psicologica, è una pratica più diffusa di quanto si creda. I motivi di tale diffusione sono molteplici, a cominciare dalla grande sofferenza di coloro che si collocano vicino a tali pazienti per motivi familiari o affettivi e che, per l’appunto, denunciano il problema divenendo veri e propri strumenti della terapia. Generalmente, la richiesta di un consulto specialistico parte dai genitori o dai familiari che chiedono soprattutto aiuto-sostegno per la difficoltà, il disagio, il disturbo manifestato dal figlio, o per la loro incapacità di far fronte ad una situazione divenuta insopportabile.

Il trattamento indiretto, in infanzia e adolescenza, è un tipo di intervento psicologico che prevede l’utilizzo di uno o più membri della famiglia come vera e propria leva di cambiamento e come risorsa principale per promuovere o ripristinare una situazione di benessere del minore e di tutto il sistema familiare. Spesso, l’azione indiretta della terapia – ovviamente se efficace – promuove un effetto benefico non soltanto sul paziente designato, ma anche sull’intero sistema implicato. Non sono pochi i casi in cui si assiste ad una vera e propria ristrutturazione dei ruoli, delle dinamiche relazionali, delle modalità comunicative di un sistema che precedentemente manteneva (inconsapevolmente) il problema.

Non di rado, più di un familiare e, a volte, l’intero sistema, è “ostaggio” del comportamento problematico di un unico membro. Il disagio si manifesta non solo a livello dei singoli, ma anche a livello dell’intero sistema. Ancora più frequentemente, l’incapacità di prendere o mantenere decisioni allineate da parte di genitori e/o familiari, consente di mantenere e quindi aggravare la situazione. Il paziente designato può manifestare resistenza al cambiamento, mantenendo più o meno consapevolmente un problema in virtù dei vantaggi secondari e della funzione che tale modalità percettivo-reattiva disfunzionale svolge per la persona stessa. Tali vantaggi e tali funzioni, purtroppo, nella maggior parte dei casi, sono prodotti proprio dal sistema stesso. Gli interventi di natura indiretta possono essere molti e possono essere molto efficaci ed efficienti, cioè promuovere benefici in tempi brevi. La difficoltà risiede nel trovare la giusta leva di cambiamento, nell’allineare il sistema nei confronti delle prescrizioni indicate, nell’adesione terapeutica.

Detto ciò, occorre specificare che, oltre ai casi in cui si presentano in terapia genitori o familiari di un paziente particolarmente resistente e che non vuole minimamente prestarsi alla seduta, la terapia indiretta può anche essere conseguenza di una vera e propria scelta del professionista. Non sono infrequenti i casi in cui, di fronte a parametri quali l’età o la marginalità del paziente, alla luce dei possibili danni che la diagnosi precoce e quindi il processo di etichettamento potrebbe recare sul paziente stesso, si preferisce agire su altre leve di cambiamento. Troppo spesso, ancora oggi, andare in terapia attribuisce alla persona una sorta di marchio da cui si fa fatica a scappare, soprattutto se attribuito in età precoce.

Come già ampiamente dimostrato dalla letteratura, etichettare una persona con una diagnosi più o meno precisa, significa strutturare il sistema ed i loro membri secondo modalità ancor più allineate a tale etichetta. La terapia indiretta consente, quindi, di prevenire il rischio di sommare ad un problema già presente, l’etichetta diagnostica di una possibile patologia che anziché risolvere il problema lo potrebbe solo aggravare. Ad esempio un bambino non deve essere etichettato, né come difficile, né come problematico. Tale diagnosi non farebbe altro che allarmare l’intero sistema scolastico e familiare, fino a promuovere pattern allineati a tale etichetta e a incrementare nel paziente designato ulteriori comportamenti “problematici”. La profezia tenderà ad auto-avverarsi. Diversamente, non venendo fisicamente in terapia, il bambino difficilmente potrà sentirsi problematico, e non sarà quindi esposto all’indagine del professionista. Anzi, il destinatario indiretto dell’intervento potrà, come per magia – attraverso i nuovi pattern comportamentali dei genitori (o di chi per loro) guidati dal terapeuta – esser indotto a cambiare modalità percettive e reattive.

La diagnosi è quindi importante comunicarla all’interessato solo quando non sarà più pericoloso farlo. In questi casi, come diceva il grande Ippocrate, è meglio primum non nocere.

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Una risposta

  1. marta ha detto:

    Buongiorno e buona domenica,desidero esporre un grave problema che porto dentro di me:non riesco a piangere,mi sento bloccata.Premetto che vivo sola,e forse nn riesco ad accettare la mia omosessualita, mi sento sola,insoddsfatta di conseguente inutile.Ultimamente penso che la vita nn serva a nulla!!!Spero che questo commento posso trarne ascolto da parte di qualcuno!!!!

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