Efficacia delle psicoterapie
Efficacia delle psicoterapie: efficacia sperimentale vs efficacia nella pratica
A cura del Dr. Stefano Tempestini
All’interno degli studi sull’efficacia delle psicoterapie è possibile attuare una distinzione tra efficacia sperimentale (efficacy), definibile come efficacia teorica o ideale di un modello o di una tecnica psicoterapeutica, ed efficacia clinica o efficacia nella pratica (effectiveness), ovvero il risultato della valutazione degli esiti dei trattamenti nella realtà della pratica clinica quotidiana (Cochrane, 1972).
Riprendendo la classica distinzione di Cronbach (1957), si possono individuare due aree della ricerca scientifica: la ricerca “sperimentale” e quella “correlazionale”. La metodologia sperimentale può essere definita come orientata “dall’alto al basso” (top-down), in quanto si presuppone che il flusso della conoscenza scorra essenzialmente dai ricercatori ai clinici; la seconda modalità viene invece definita “dal basso all’alto” (bottom-up), poiché vengono osservate le strategie terapeutiche utilizzate dai clinici esperti nello svolgimento della loro pratica clinica quotidiana e, tramite l’impiego di strumenti sofisticati e ben validati, le si correlano con specifiche variabili del risultato.
A partire dagli anni novanta negli Stati Uniti, all’interno di un approccio di ricerca evidence-based, sotto la spinta dell’APA (American Psychological Association), è venuto affermandosi il movimento degli ESTs (Empirically Supported Treatments) (Chambless & Hollon, 1998; Beutler, 1998), cioè di trattamenti supportati empiricamente, il cui obiettivo è la verifica empirica dell’efficacia comparata dei trattamenti. Gli ESTs condividono le seguenti caratteristiche:
- i pazienti vengono appositamente selezionati per l’inclusione nello studio, allo scopo di massimizzare l’omogeneità del campione e minimizzare la presenza di condizioni concomitanti che potrebbero aumentare la variabilità della risposta terapeutica;
- le tecniche terapeutiche vengono designate tipicamente per disturbi dell’Asse I del DSM IV (cioè per sindromi cliniche e non per disturbi di personalità);
- le valutazioni del risultato mettono a fuoco soprattutto il sintomo che è al centro di interesse della rispettiva ricerca;
- le terapie sono di durata breve e prefissata;
- vengono seguiti fedelmente i manuali di psicoterapia (Migone, 2005).
Inoltre gli assunti alla base della conduzione degli ESTs, che puntualmente vengono contestati da Westen (Westen, Morrison, & Thompson-Brenner, 2004/2005), sono:
- i processi psicologici sono altamente malleabili;
- la maggior parte dei pazienti ha un solo problema principale o può essere trattata come se fosse così;
- i sintomi psicologici possono essere compresi e trattati a prescindere dalle predisposizioni di personalità;
- gli RCT (Randomized Clinical Trials) rappresentano i “Gold Standard” per valutare l’efficacia terapeutica;
- all’inizio della terapia i pazienti desiderano riferire, e sono in grado di farlo, i motivi della loro sofferenza;
- gli elementi di un trattamento efficace sono dissociabili gli uni dagli altri e cumulabili tra loro.
Gli ESTs possono essere condotti, come detto, attraverso la metodologia di ricerca denominata RCT, tipica di un approccio top-down, definito come lo “standard aureo” nella valutazione dell’efficacy. Gli RCT mirano ad ottenere un alto grado di validità interna, definibile come il grado con cui è possibile inferire una relazione causale tra le variabili indagate, o dove l’assenza di una relazione implica l’assenza di una causa.
Per rispettare questo è necessario utilizzare tecniche solitamente non impiegate nell’attività clinica quotidiana. Pertanto gli RCT sono costituiti da interventi per i quali sono disponibili solide prove scientifiche che ne dimostrano la capacità di produrre un miglioramento nei risultati ottenuti dal paziente (Drake & Goldman, 2003), le valutazioni sono svolte all’interno di un setting di ricerca attraverso l’ausilio di studi sperimentali controllati e pianificati, necessita quindi di un campione rappresentativo di una specifica popolazione, un campione di controllo, di un placebo, strumenti standardizzati in grado di evidenziare il problema iniziale ed il cambiamento finale e di interventi terapeutici sufficientemente standardizzati da poter essere ritenuti sovrapponibili, in modo da poter formulare delle ipotesi causali.
Ovviamente un alto grado di validità interna minaccia la validità esterna dell’esperimento, ovvero il grado di inferenza necessario per generalizzare la relazione causale. Questo si traduce nel problema di inferire la reale efficacia clinica (effectiveness) da una qualsiasi dimostrazione della sua efficacia sperimentale (Roth & Fonagy, 1996/1997). Vari autori, tra cui Elliott (2001, 2002), Fonagy (2002) e Westen, Morrison, e Thompson-Brenner (2004/2005) hanno mosso numerose critiche agli RCT mettendone in evidenza i limiti, tra cui:
- scarsa generalizzabilità dei risultati alle popolazioni dei pazienti “reali”;
- utilizzo di campioni numericamente limitati;
- mancanza di chiarezza rispetto alla natura della terapia offerta;
- scarsa “tenuta” che dipende dalla numerosità del campione e dall’assegnazione causale dei pazienti;
- impossibilità di misurare alcuni aspetti importanti del funzionamento mentale del paziente;
- problema del gruppo di controllo relativo alla difficoltà nello stabilire cosa sia placebo e cosa no;
- scarsa considerazione dei fattori di distorsione che le statistiche utilizzate negli RCT portano con sé.
Si sviluppa invece attorno ad un approccio bottom-up la ricerca basata sull’effectiveness che fa riferimento alla practice-based evidence. L’obiettivo è quello di ottenere una valutazione degli effetti della psicoterapia in setting clinici reali in cui questa viene effettivamente erogata routinariamente. Si tratta di studi naturalistici, in cui i dati raccolti provengono da gruppi di pazienti in cura presso servizi di psicoterapia pubblici o privati, che definiscono il problema sulla base delle diagnosi cliniche effettivamente formulate dagli operatori, che considerano l’intervento così come viene somministrato di routine in quelle situazioni e confrontano la valutazione di esito offerta dagli stessi clinici con altre valutazioni ottenute o attraverso strumenti standardizzati o attraverso misure indirette del cambiamento (ad esempio successo lavorativo del paziente, inserimento sociale, frequenza con cui il paziente si rivolge ai servizi, ecc.) (De Coro & Andreassi, 2004).
Riferimenti bibliografici
- Cochrane, A. L. (1972). Effectiveness and efficiency: Random reflections on Health Services. London: Nuffield Provincial Hospitals Trust.
- Cronbach, L. J. (1957). The two disciples of scientific psychology. American Psychologist, 12, 671-684.
- Chambless, D. L., & Hollon, S. D. (1998). Defining empirically supported therapies. Journal of Consulting and Clinical Psychology, 66, 7-18.
- De Coro, A., & Andreassi, S. (2004). La ricerca empirica in psicoterapia. Roma: Carocci.
- Migone, P. (2005). Sono veramente efficaci le psicoterapie evidence-based?. Il ruolo terapeutico, 98, 103-114.
- Westen, D., Morrison, K., & Thompson-Brenner, H. (2004). The empirical status of the emirically supported psychotherapies: Assumption, findings, and reporting in controlled clinical trials. Psychological Bulletin, 130, 631-663 (trad. it. Lo statuto empirico delle psicoterapie validate empiricamente: Assunti, risultati e pubblicazione delle ricerche, Psicoterapia e Scienze Umane, 2005, XXXIX (1), 7-90.
- Drake, R. E., & Goldman, H. H. (2003). Evidence-based practices in mental health care. Arlington: American Psychiatric Association.
- Fonagy, P. (2002). An open door review of outcome studies in psychoanalysis (2nd ed.). New York: International Psychoanalytic Association.
- Roth, A., & Fonagy, P. (1996). What works for whom?: A critical review of psychotherapy research. New York: Guilford Press (trad. it. Psicoterapie e prove di efficacia: Quale terapia per quale paziente, Il Pensiero Scientifico, Roma, 1997).
- Beutler, L. E. (1998). Identifying empirically supported treatments movements: What if we didn’t. Journal of Consulting and Clinical Psychology, 66 (1), 113-120