Psicoterapia: e se non fosse per matti?
Psicoterapia: e se non fosse per matti? Oltre i pregiudizi del senso comune
A cura della Dott.ssa Clarice Ranfagni
Siamo nel 2016. Ancora troppo spesso ricorrono domande del tipo “ma siamo matti??? pagare uno sconosciuto per andarci semplicemente a parlare!” o frasi come “ma lo psicoterapeuta serve ai matti, io non ne ho bisogno!”. Basta uscire dall’ambito degli addetti ai lavori, per imbattersi in pregiudizi e tabù ancora radicati nel senso comune e duri a morire.
Questo aumenta ogni giorno di più la mia voglia e il senso di necessità di avvicinarmi alle persone. Chi varca la soglia dello studio di uno psicoterapeuta, per altrettanta voglia o senso di necessità, ha già deciso di darsi una risposta diversa alle affermazioni precedenti.
Pratico il mestiere di psicoterapeuta con passione da tanti anni ormai. Con tanta passione che a volte mi dimentico di fare un mestiere. Tant’è. In certe professioni, soprattutto quelle che hanno a che fare con la relazione d’aiuto, il confine può talvolta farsi labile e non si può prescindere da un contatto umano profondo.
Si incontrano tante persone, tante storie, tante sofferenze. Dimentico difficilmente chi ho incontrato, fosse anche per poche sedute. Quell’uomo, quella donna, quel ragazzo, quella bambina. Hanno nomi e volti, profili ben precisi nella mia mente. E ancora più precisi sono i tratti dei loro visi nel momento in cui ci siamo detti che il nostro percorso insieme era finito, che potevano riprendere a camminare sulle loro gambe. Un sorriso più intenso, una stretta di mano più calorosa, talvolta un abbraccio, qualche calda lacrima commossa e via verso la vita, nuovamente innamorati di sé.
Si incontrano tante persone, tante storie, tante sofferenze. Eppure non mi sono mai relazionata a sintomi o patologie, nonostante le persone tendano a presentarsi proprio con quelli. Coerentemente coi miei valori etici e personali, e coerentemente coi presupposti teorici del modello clinico in cui declino il mio agire professionale (l’ottica cognitivo-costruttivista – cfr. Cionini, 2013 – che ho amato proprio in quanto rispondeva e corrispondeva al mio modo di vedere il mondo), ogni persona è un universo unico e irripetibile, che va esplorato da dentro e conosciuto dall’interno, con rispetto, interesse e genuina curiosità. Per questo non amo – e quindi non ricorro – a etichette diagnostiche e nosografiche. Limitano la possibilità di comprendere chi ti sta di fronte e limitano anche la possibilità che la persona che si ha di fronte si comprenda nella sua pienezza.
Non di rado, anzi molto spesso, il problema che la persona presenta si rivela una vera e propria occasione per conoscersi meglio; solitamente è la prima volta che si addentra con consapevolezza nella propria storia e nel proprio presente, si prende tempo per raccontarsi, ascoltarsi, riflettere, capire e capirsi, tanto nel rapporto con se stessa quanto nel rapporto con gli altri.
Le ricadute sono ampie e positivamente pervasive. La persona acquisisce competenza di sé e senso di efficacia del proprio muoversi nel mondo: invece che soltanto “agire” si trova ad avere uno sguardo “meta” (altro e oltre il vincolante punto di vista “singolare”) su di sé, sugli altri e sul proprio vivere che agevola il raggiungimento di obiettivi e scopi esistenziali. Con consapevolezza del proprio passato, con competenza del proprio presente, il cammino verso il futuro muove i suoi passi.
Lavorando per anni, oltre che nel privato, anche nel campo della Giustizia Minorile ho incontrato ragazzi che pur non avendo una vera e propria motivazione ad un lavoro personale, se non quella di districarsi al più presto dalle maglie giudiziarie, hanno nella maggior parte dei casi colto in uno “spazio per sé” l’opportunità di avviare un processo di conoscenza di sé diverso e più intimo.
Processo di conoscenza che è reso possibile da quella dimensione relazionale diversa da tutte le altre relazioni interpersonali quale è quella della coppia terapeutica: una relazione reale, seppur con caratteristiche assolutamente specifiche e particolari che conducono, come afferma Guidano (1991), “a un livello di intimità e di confidenza che è presente in poche altre relazioni sia affettive che di amicizia” e che viene a delinearsi “pertanto come esperienza unica e irripetibile in cui il processo terapeutico si svolge nella connessione e quindi nell’interdipendenza” (Fenelli et alii, 2011).
Processo di conoscenza che nasce, cresce e si compie in quella “stanza”, che è lo studio di uno psicoterapeuta, il cosiddetto “setting” (Cionini & Ranfagni, 2009), che solo una stanza non è ma rappresenta un vero e proprio “modo di stare insieme”, talmente unico e peculiare da divenire strumento stesso per promuovere il cambiamento.
Processo di conoscenza che permette alla persona – attraversando e intrecciando in trame inedite pensieri, emozioni, immagini, sensazioni, ricordi e sogni, nella cornice viva della relazione col terapeuta – di comprendere nel significato più pieno il senso del proprio essere nel mondo e di prendere consapevolmente in mano il proprio vivere, verso un miglior equilibrio personale e relazionale.
Riferimenti bibliografici
- Cionini, L. (2013). La psicoterapia cognitivo-costruttivista. In L. Cionini (a cura di), Modelli di psicoterapia (pp. 133-213). Roma: Carocci.
- Cionini, L. & Ranfagni, C. (2009). Dal setting descrittivo al setting funzionale: regole d’improvvisazione nel gioco della terapia. In C. Loriedo & F. Acri (a cura di), Il setting in psicoterapia. Lo scenario dell’incontro terapeutico nei differenti modelli clinici di intervento (pp. 172-224). Milano: Franco Angeli.
- Fenelli, A., Volpi, C., Guarracino, E., Galli, V., & Esposito, M. (2011). Il ruolo della reciprocità nella costruzione dei legami e come chiave di lettura dei processi relazionali. Rivista di psichiatria, 46 (5), 296-299.
- Guidano, V. F. (1991/2000). Psicoterapia cognitiva post-razionalista e ciclo di vita individuale. Disponibile sul sito web www.psicoterapia.name.